Il Damasceno come testimone della formazione del testo coranico?

Il processo di formazione del testo coranico è al centro di un dibattito che continua a suscitare grande interesse tra studiose e studiosi dell’islam delle origini. Secondo la tradizione islamica, tramandata ad esempio da al-Tabari (IX-X secolo), la prima raccolta delle rivelazioni di Muhammad risalirebbe al califfo Abu Bakr, che avrebbe affidato allo scriba Zayd ibn Thabit il compito di fissare per iscritto le parole del Profeta, temendo che andassero perdute. Una vera e propria uniformazione del testo sarebbe avvenuta solo più tardi, sotto il califfato di Uthman (644-656): preoccupato dalle divergenze nella recitazione delle rivelazioni tra i suoi soldati provenienti da diverse regioni, egli avrebbe imposto una versione ufficiale e ordinato di distruggere le altre.

A partire dal secolo scorso questa ricostruzione è stata messa in discussione. Le ricerche hanno mostrato che, nei decenni successivi alla morte di Muhammad, ciò che oggi chiamiamo “Corano” non circolava come un testo unitario, ma come un insieme di scritti di varia provenienza. Nuovi strumenti di indagine, dalla papirologia alle datazioni al carbonio 14, hanno rivelato un panorama molto più variegato e complesso.

Su queste basi si colloca l’ipotesi avanzata da Stephen J. Shoemaker nella sua recente monografia sulla “costruzione” del Corano [1]. Riprendendo l’intera documentazione disponibile, lo studioso propone una datazione più tarda della redazione canonica: non alla fine del VII secolo, ma intorno alla metà o persino alla fine dell’VIII secolo. Oltre ai nuovi approcci citati, nello studio del processo di formazione del testo coranico, Shoemaker si serve anche anche di fonti “esterne” alla tradizione islamica, per analizzare le possibili testimonianze del testo. In questa prospettiva, le opere che Giovanni Damasceno dedica all’islam – il capitolo 100 del Sulle eresie e la Disputa tra un cristiano e un saraceno (verosimilmente composta dai suoi discepoli) – assumono un ruolo importante. In entrambi i testi l’islam è presentato come “l’eresia degli ismaeliti” e viene citata a più riprese quella che il Damasceno chiama la nuova scrittura (graphē) di Muhammad, che egli avrebbe redatto dopo avere letto le Scritture ed essere stato istruito da un monaco ariano.

Le citazioni del Damasceno corrispondono in larga parte alle sure presenti nella versione attuale del Corano. A livello contenutistico, i precetti e i racconti attribuiti da Giovanni al libro di Muhammad trovano quasi sempre riscontro nella versione “canonica” del testo, sebbene non sempre nelle stesse sure indicate dall’autore.

Non mancano però differenze evidenti, sia nei contenuti dei passi citati, sia nell’attribuzione delle sure. Shoemaker interpreta queste discrepanze come la prova del carattere ancora fluido e non del tutto uniforme del testo coranico all’epoca del Damasceno, quando potevano circolare anche scritti autonomi. Lo studioso riprende in particolare l’ipotesi, già avanzata in passato, che la sura 2, La vacca, fosse in origine un testo indipendente. Giovanni la cita alla fine del capitolo 100 ma non ne riporta i contenuti, sebbene li avesse menzionati altrove, senza specificare a quale delle graphai di Muhammad si stesse riferendo. Tale autonomia sarebbe confermata da alcune attestazioni papiracee e da un dialogo eresiologico in siriaco, la Disputa tra un musulmano e un monaco di Bet Ḥale, in cui si menziona appunto uno scritto intitolato Sulla vacca.

Alla luce di queste divergenze, Shoemaker sostiene che il testo letto dal Damasceno fosse sostanzialmente diverso da quello giunto fino a noi. Giovanni potrebbe dunque essere stato testimone di una versione del Corano consultata a Mar Saba o, ancora prima, durante la sua permanenza a Damasco, oppure avere avuto accesso a una testo “superato” nel momento in cui le autorità islamiche tentavano di uniformarlo. Riprendendo un’idea già proposta da P. Schadler [2], Shoemaker dichiara: “Clearly, we must conclude, the sacred Ishmaelite writings that John knew in this era and describes in his account of their beliefs cannot have been the Qur’an as we know it in its present form” (pp. 53-54).

 

Citare il Corano come un “testo eretico”: faziosità, curiosità e polemica

Il lavoro di Shoemaker costituisce un contributo di grande rilievo nella storia recente degli studi sul primo islam. Le sue osservazioni sulle citazioni coraniche nelle opere del Damasceno sono convincenti. È molto probabile che il teologo siriano abbia avuto accesso a una versione del testo coranico che non coincideva ancora con quella che, proprio in quegli anni, si stava fissando come “canonica”: una versione diversa non solo nella disposizione dei contenuti, ma anche nella forma e nella struttura complessiva.

Occorre però precisare un aspetto importante. Come già accadeva per gli altri eresiologi, il Damasceno non si limita a riportare i testi degli avversari, ma li utilizza come strumenti polemici. Egli non si limita a citare i passi coranici: li spezza, li ricompone, li colloca in un ordine diverso, fino a presentarli come parte di un unico testo. È un procedimento che Giovanni riprende dalla precedente tradizione eresiologica. Si pensi, per esempio, al modo in cui gli autori cristiani parlano del montanismo, movimento profetico sorto alla metà del II secolo in Frigia con la predicazione di Montano. Già dal primo periodo della sua diffusione, gli eresiologi riportano testi profetici attribuiti ai montanisti molto spesso senza indicare la fonte o il contesto, riadattandoli alla propria argomentazione. Come ha mostrato Maria Dell’Isola nel suo recente studio sulle profezie montaniste [3], questo modo di citare, selettivo e spesso volutamente opaco, rende i testi degli eretici materiale per la confutazione di coloro che li avevano prodotti.

Anche nel caso del Damasceno, dunque, le citazioni coraniche non sono inventate, ma vanno lette all’interno di una strategia di controversia. Poiché l’islam è presentato come un’eresia, il Profeta, i suoi seguaci e i loro scritti sono trattati secondo gli stessi schemi polemici impiegati contro montanisti, nestoriani o monofisiti.

Bisogna inoltre sottolineare un aspetto che differenzia Giovanni dagli eresiologi precedenti: la questione linguistica. Se Ireneo o Epifanio citavano testi eretici composti originariamente in greco, Giovanni traduce dall’arabo. La traduzione implica scelte, alcune dettate da esigenze pratiche (per esempio, rendere concetti privi di corrispettivi nella terminologia cristiana greca), altre frutto di un chiaro intento polemico. È significativo, ad esempio, che egli traduca il termine kalima (“parola”) con Logos anziché con rhēma: una scelta che gli consente di piegare il testo coranico all’interno della teologia cristiana del Verbo.

Per tutte queste ragioni, un’analisi sistematica e complessiva delle citazioni coraniche nelle opere del Damasceno permette di gettare luce su alcune fasi della storia testuale del Corano e sulla sua diffusione negli ambienti cristiani del tempo. Al tempo stesso, tale studio mostra anche come un autore colto e informato come Giovanni utilizzasse, con gli strumenti tipici dell’eresiologia, le “scritture degli altri” per polemizzare contro i suoi stessi avversari, considerati chiaramente eretici.

 

Gaetano Spampinato

 

[1] S.J. Shoemaker, Creating the Qur’an. A Historical-Critical Study, University of California Press, Oakland 2022.

[2] P. Schadler, John of Damascus and Islam: Christian Heresiology and the Intellectual Background to Earliest Christian-Muslim Relations, «The History of Christian-Muslim Relations» 34, Brill, Leiden-Boston 2018.

[3] M. Dell’Isola, L’ultima profezia. La crisi montanista nel cristianesimo antico, «Oi christianoi», Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2020.

 


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